Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 209
maggio 1994


Rivista Anarchica Online

Il nipote di Josefine Mützenbacher
di Pietro Adamo

Il complesso e originale pensiero di Feyerabend - tanto ricco di spunti anarchici - nell'analisi di Pietro Adamo.

Il 12 febbraio scorso è morto in un ospedale svizzero, minato da una malattia incurabile, Paul K. Feyerabend. Nonostante non si sia mai dichiarato anarchico in una maniera accettabilmente seria o coerente, i suoi libri costituiscono una delle fonti più ricche e suggestive per il pensiero libertario di questo scorcio finale di secolo: mi vengono in mente pochi altri nomi di questo periodo che possano competere con il suo per quel che riguarda novità concettuali e prospettiche, finezza d'analisi e proposte (de)costruttive - Paul Goodman, Murray Bookchin, Hakim Bey, forse Colin Ward. Noto come epistemologo e filosofo della scienza, da molto tempo Feyerabend aveva smesso di occuparsi dei tecnicismi del suo mestiere: se pure ogni tanto si concedeva una ricaduta in questi esercizi di «analfabetismo sistematico» (SSL 68), lo faceva in genere con l'intenzione di mostrarne l'assoluta inutilità. Almeno da una quindicina d'anni a questa parte si è interessato principalmente di modelli di convivenza civile, pluralismo delle tradizioni (scientifiche e non), difesa dei singoli e dei gruppi dall'autoritarismo dello stato, della chiesa, della società, degli scienziati: in una parola, di politica. Gli studiosi hanno discusso in vario modo questo passaggio. Forse a causa di quel «professionalismo» tanto esecrato da Feyerabend, ne hanno cercato cause e spiegazioni nell'ambito delle discipline accademiche, usando i tradizionali strumenti della ricerca filosofica. E tuttavia le risposte più convincenti stanno altrove: il pensiero di Feyerabend matura nella Berkeley delle ribellioni studentesche e del Free Speech Movement, degli hippy e della psichedelia, dei santoni orientali e dell'acid rock, della liberazione sessuale e delle comunità giovanili - «il più grande laboratorio sperimentale della libertà nel paese e nel mondo», ha scritto nel febbraio 1965 uno dei collaboratori del Berkeley Barb. Le scelte epistemologiche «anarcodadaiste» di Feyerabend, le sue elaborazioni sociopolitiche, persino il suo peculiare metodo espositivo diventano forse più decifrabili nel contesto di questo «grande laboratorio della libertà» e, più in generale, nel panorama della controcultura americana degli anni sessanta. Anzi, l'idea che l'esperienza complessiva di Feyerabend si riveli uno dei momenti di strutturazione e articolazione più alti delle istanze libertarie di questa controcultura mi pare un'ipotesi sia affascinante che convincente.

Dall'epistemologia alla politica
Paul Karl Feyerabend nasce a Vienna nel 1924.
In gioventù studia astronomia e canto, progettando di diventare un professionista in entrambe le discipline. La guerra gli rompe le uova del paniere, costringendolo ad andare a combattere sul fronte russo: «Che rottura di scatole» (SSL, 165), pare abbia pensato di fronte alla cartolina precetto. Ferito gravemente, dopo la convalescenza diventa «animatore di un asilo infantile» (I, 2), interessandosi nel contempo di teatro, opera, filosofia. Trasferitosi per breve tempo a Weimar per un corso di studi, si adatta a vivere in una cantina, «in mezzo a stufe arrugginite, ragnatele e millepiedi», trovando conforto in una amica «ardentemente amata», che lo seduce «senza prestare orecchio neanche per un attimo alla mia abbagliante spiegazione delle critiche kantiane» (I, 3).
Tornato a Vienna, riprende gli studi universitari concentrandosi sulle materie scientifiche, frequentando il circolo Kraft e l'intellighenzia filosofica viennese. Conosce Karl Popper, «un'intelligenza libera», un uomo pieno di umorismo, «sostanzialmente diverso dal posteriore filosofo dell'establishment sir Karl» (SSL 175). Tenta di trasferirsi poi in Inghilterra, sperando di poter studiare con Wittgenstein; gli tocca ancora Popper, ma già nel 1955 rifiuta di divenire suo assistente alla London School of Economics, preferendo un «disordinato vagabondaggio nel mondo delle idee» alla prospettiva di dover studiare sotto la direzione di sir Karl, manifestando nel contempo una decisa antipatia per «ogni tipo di guida in generale» (SSL 176).
Nel 1958 diventa professore a Berkeley. In questo periodo acquista lo status di astro nascente della filosofia della scienza, pubblicando dotti saggi su questioni come il realismo scientifico e la teoria quantistica della misurazione. Agli inizi degli anni sessanta i suoi studi sulla teoria dei quanti - insieme alla lettura di The Structure of Scientific Revolutions di Thomas Kuhn e a un decisivo colloquio con un collega nel 1965 - lo spingono a dubitare della versione «ufficiale» della nozione di progresso scientifico e di conseguenza a mettere in discussione la complessa intelaiatura intellettuale (costruita soprattutto da Popper) che ne giustifica le asserzioni: «d'improvviso capii [che] chi vuole risolvere un problema concreto, deve avere piena libertà [...] e non può essere limitato nella sua azione da criteri, norme, regole, per quanto tali criteri possano sembrare plausibili anche ai logici e ai filosofi che li hanno escogitati nella solitudine dei loro studi» (SSL 178). Da qui, affermerà poi un quasi compiaciuto Feyerabend, «il mio passaggio all'''anarchismo''» (SSL 178).
Tuttavia la prima dichiarazione in questo senso risale almeno al 1970 (la prima versione di Contro il metodo). Nel frattempo il nostro si ritrova nell'epicentro della ribellione universitaria e assiste in primissima persona agli esperimenti della controcultura. Dal confronto con i suoi studenti matura una nuova concezione della relazione tra insegnanti e allievi: «Il mio compito era mettere in atto la politica pedagogica dello stato della California», ossia «insegnare quello che un piccolo gruppo di intellettuali bianchi ritiene sia la conoscenza» (SSL 179). Ma di fronte a messicani, neri e indiani (e successivamente hippy, contestatori, psichedelici, fautori del libero amore, ecc.), che propongono l'adozione di nuovi criteri gnoseologici e di forme di vita differenti da quelle tradizionali, Feyerabend scopre di sentirsi come «uno schiavista colto e distinto» (SSL 180). Il problema assume allora dimensione politica: come assicurare a queste intuizioni e a questi progetti controculturali - che ai suoi colleghi appaiono «non-scientifici» o totalmente «irrazionali» - eguale diritto di partecipazione al mercato delle idee? La risposta dell'epistemologo Feyerabend è quantomeno rivoluzionaria: non si tratta di dimostrare che l'agopuntura, il misticismo psichedelico, il taoismo, la medicina hopi, o magari «un dramma teatrale [...] oppure un romanzo», siano in grado di produrre un tipo di conoscenza che possa competere - per coerenza, affidabilità e «obbiettività» - con la scienza «ufficiale», ma di provare che non vi è motivo alcuno di sostenere la superiorità di quest'ultima: «non vi sono ragioni vincolanti per preferire la scienza e il razionalismo occidentali ad altre tradizioni e per riconoscere loro un peso maggiore» (SA 58). La strategia complessiva di Feyerabend consiste nel ridurre la stessa scienza a una «tradizione tra le tante», distruggendone la sedicente egemonia epistemologica e smantellandone la pretesa di emettere un giudizio su ogni esperienza differente usando i suoi peculiari criteri: «la scelta dell'oggettività come misura è essa stessa una scelta personale e/o di gruppo» (AR 293).
Diamo una rapida occhiata a quella che Feyerabend definisce la «versione tecnica» (HB 22) della questione: la scienza procede identificando problemi e risolvendoli con l'aiuto di ipotesi che sono (a) rilevanti, (b) falsificabili e (c) maggiormente ricche in contenuto della descrizione da cui sorge il problema. Dopo aver trovato un'ipotesi, si tenta di falsificarla (d) e di opporsi a ogni tentativo di eliminare le difficoltà. La falsificazione conduce al nuovo problema del perché la vecchia teoria abbia avuto successo in un determinato momento e perché sia poi stata eliminata. Anche questo problema deve esser risolto secondo (a), (b), (c) e (d), vale a dire da ipotesi che sono sia più ricche di entrambi i problemi, sia falsificabili. E così la scienza avanza per congetture e confutazioni da regolarità locali e schemi concettuali complessivi.
Questo, dichiara Feyerabend, è lo schema dei popperiani, che ne ritengono i passaggi condizioni necessarie per un approccio razionale. Ma lo schema «è chiaramente insoddisfacente»: la storia della scienza ci offre un quadro differente. Non sempre la vittoria di una nuova teoria è avvenuta per mezzo della falsificazione (ovvero per mezzo della scoperta di fatti che la confutino); il «senso di un'ipotesi» si rivela spesso solo quando essa è già «stata definitivamente eliminata»; in molti casi una nuova teoria implica grandi «cambiamenti nei principi universali», e quindi rende impossibile commisurare i contenuti delle due teorie che si contrappongono; a volte la teoria vincente «non aumenta il contenuto», ma ne offre piuttosto un «restringimento»; il meccanismo di «congettura e confutazione» richiede uno «sviluppo ordinato» - «un mondo dove gli esempi confutanti sono rari ed emergono dopo grandi intervalli», ma non è certo questo il caso della scienza occidentale; non è raro il caso in cui la condizione per l'aumento di contenuto sia essa stessa rifiutata per «motivi etici o politici» (HB 22-24).
La conclusione è epocale: nella storia del pensiero scientifico non è possibile rintracciare alcuno schema «razionale» che ne spieghi il cosiddetto progresso. La filosofia della scienza collassa nella storia della cultura, costringendo gli studiosi a utilizzare «la storia delle idee per spiegare i fenomeni non chiari»:
La scienza è una tradizione storica [...]: non è soggetta a regole esterne, le regole che guidano lo scienziato non sono sempre note e cambiano da un periodo all'altro. Comprendere un periodo della storia della scienza è come comprendere un periodo stilistico nella storia dell'arte. C'è ovviamente un'unità, ma non può esser riassunta in poche regole semplici; le regole che la guidano debbono esser trovate con studi storici dettagliati. [...] L'idea generale di una tale unità, o paradigma, sarà quindi povera e formulerà un problema piuttosto che fornirne la soluzione: il problema di riempire una cornice elastica ma mal definita con un contenuto storico concreto e sempre cangiante (HB 24).

Anarchismo e anarchismo metodologico
Da qui l'analisi di Feyerabend si dipanerà nelle direzioni più impensabili. Almeno sino alla fine degli anni settanta continuerà nella sua opera di distruzione delle pretese egemoniche della scienza, dell' epistemologia e del «razionalismo» d'Occidente. In questo percorso assume sempre maggior peso una domanda già formulata nella prima versione di Contro il metodo: «Non è infatti possibile che la scienza quale noi oggi la conosciamo (la scienza del razionalismo critico [...]), ovvero la "ricerca della verità" nello stile della filosofia tradizionale, partorisca dei mostri? Non è possibile che essa danneggi l'uomo, trasformandolo in un meccanismo miserevole, misantropo, egocentrico, privo di fascino e di senso dell'humour?» (CM1 93).
Alla domanda Feyerabend risponderà proponendo prima «una riforma della scienze, capace di renderle più anarchiche e soggettive» (CM1 93), e poi - allargando la sua critica al razionalismo occidentale con la strumentazione classica del pensiero libertario, vale a dire descrivendone le funzioni repressive nell'ambito istituzionale-pedagogico, nell'ambito intellettuale e in quello più propriamente politico - proponendo un più generale modello di convivenza civile che conceda a ogni tradizione - religiosa, intellettuale, sociale, ecc. - eguali diritti di cittadinanza.
Riformare la scienza, quindi: Feyerabend usa anche gli argomenti «utilitaristici» del Mill di On Liberty, ma la sua enfasi - nella scelta dello strumento di riforma - cade sull'«anarchismo metodologico», concetto costruito su un'analogia tra i procedimenti auspicabili nel mondo della scienza e i principi generali dell'anarchismo. Come abbiamo visto, lo scopo ultimo è la valorizzazione delle esperienze e delle tradizioni che il «vincitore» ha confinato nel campo dell'irrazionale. Feyerabend cita spesso discipline come la parapsicologia, l'astrologia, le medicine alternative, ma è evidente che per lui una rigida discriminazione metodologica non ha realmente senso: quindi, anything goes, tutto va bene, agli scienziati deve esser permesso percorrere ogni strada, mettere alla prova qualsiasi ipotesi, senza la censura preventiva dei razionalisti e della loro «chiesa dogmatica» (si tratti dei rimedi degli stregoni primitivi, dei trattati di mistica o degli effetti delle droghe psichedeliche). E non solo bisogna permettere tali ricerche, ma esse devono condividere con la scienza «seria» le sovvenzioni e il denaro pubblico. Questo è l'aspetto più minaccioso del relativismo di Feyerabend, secondo i suoi detrattori: ma, «sin dall'inizio della civiltà occidentale», la richiesta di distinguere la cosiddetta «verità» dalla cosiddetta «falsità», o «i sogni» (degli eterodossi) dalla «realtà» (degli ortodossi), è sempre stata utilizzata «da vescovi e cardinali [...] per difendere un procedimento, una ideologia, una religione» (SSL 105).
Lo scienziato dovrebbe quindi comportarsi nella sua professione come un anarchico, chiedendo «che all'individuo sia consentito di svilupparsi liberamente, senza l'impaccio di leggi, doveri e obblighi» (CM2 18) e opponendosi politicamente all'ordine costituito: «allo stato, alle sue istituzioni, alle ideologie che lo sostengono e glorificano tali istituzioni» (CM2 153). Inoltre, l'anarchismo manifesta a volte il desiderio di superare non solo le circostanze sociali, ma anche i limiti del mondo corporeo: «questo anarchismo religioso o escatologico nega non soltanto le leggi sociali, ma anche leggi morali, fisiche e percettuali» (CM2 155).
«L'anarchismo è quindi non soltanto possibile, ma necessario tanto per il progresso interno della scienza quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo complesso» (CM2 147). Tuttavia gli anarchici, secondo Feyerabend, sono ancora legati al principio d'autorità nel particolare ambito della scienza (citato, quasi ovviamente, Kropotkin, CM2 18): anche per questo motivo dichiarerà di sentirsi più a suo agio con la definizione di «dadaista». Occorre un passo ulteriore: mentre l'anarchico politico o religioso vuole abolire una certa forma di vita, l'anarchico epistemologico può desiderare di difenderla, poiché egli non ha alcun sentimento eterno di fedeltà, o di avversione, nei confronti di alcuna istituzione o ideologia. [...] Non c'è alcuna opinione, per quanto «assurda» o «immorale», che egli si rifiuti di prendere in considerazione o in conformità con la quale si rifiuti di agire, e nessun metodo è considerato indispensabile. L'unica cosa alla quale egli si opponga fermamente e assolutamente sono gli standard universali, le leggi universali, le idee universali come «Verità», «Ragione», «Giustizia», «Amore» e il comportamento che esse implicano [...] Al di sotto di tutte le sue violazioni c'è la convinzione che l'uomo cesserà di essere uno schiavo e che conseguirà una dignità che sarà qualcosa di più di un prudente anticonformismo solo quando diventerà capace di uscire dalle categorie e convinzioni più fondamentali (CM2 156).
Il rifiuto dei concetti di dominio e dogma raggiunge l'apice nella determinazione delle mistificazioni dell'ideologia: qualsiasi valore, affermato nella sua assolutezza, può condurre sulla strada dell'autoritarismo. E' chiaro che Feyerabend non si oppone alle idee sopra citate per le loro qualità intrinseche, o per ciò che esse comportano nella loro applicazione relativa, ma solo per la loro possibile funzione coercitiva: «il cristianesimo predicava amore, ma uccise, mutilò, arse sul rogo centinaia di migliaia di esseri umani. La rivoluzione francese predicava ragione e virtù e naufragò in un oceano di sangue» (SSL 119). E oggi la Ragione occidentale, con le sue pretese esclusiviste, è divenuta il fondamento principale dei meccanismi di repressione attuati dalle istituzioni, sia sul piano politico e sociale - giustificando per esempio la delega ai cosiddetti «esperti» di ogni decisione riguardante la vita dei cittadini, oppure sancendo i monopoli delle corporazioni (mediche, politiche, economiche) che pretendono di controllare ogni aspetto delle interazioni tra i singoli - sia sul piano individuale e psichico - con la restrizione delle opzioni possibili riguardanti stili di vita, scelte personali, o magari anche i rapporti con la sacralità, eccetera.

Una filosofia controculturale
La critica alla Ragione ci porta a riflettere sui rapporti tra la controcultura e il pensiero di Feyerabend. Almeno a partire da La scienza in una società libera (1978), quest'ultimo ha continuato a indicare una serie di soluzioni alla repressione sociale e culturale messa in atto dalle istituzioni (e, dopo aver conosciuto Grazia Borrini, «un'amabile ma decisa combattente per la pace e l'autodeterminazione», (AR 314) poi divenuta sua moglie, ha allargato la sua prospettiva sino a includere nella sua critica le diverse forme di imperialismo economico-culturale nei confronti del terzo mondo). Ha di recente ammesso che, se pure si trattasse di un «modello politico», si segnalerebbe per la sua «vaghezza»: ma questa «è necessaria, perché intende fare spazio alle decisioni concrete dei suoi utenti» (AR 394). La prospettiva di Feyerabend è sia libertaria che radicalmente democratica: da un lato la difesa di ogni tradizione allarga il numero delle opzioni disponibili sul mercato, permettendo a chiunque di scegliere liberamente e senza limitazioni aprioristiche lo stile di vita che preferisce, dall'altro ogni decisione istituzionale, riguardante le strutture della vita associata, è demandata, in una «società libera», a comitati di cittadini che prendono decisioni basate sui loro bisogni e i loro interessi (e non su quelli degli «esperti» controllati dallo stato o dalle corporazioni): «la maturità non la si trova per strada, ma bisogna impararla» e ciò si può fare solo con la «partecipazione attiva a decisioni ancora da prendere» (SSL 131), scrive Feyerabend, quasi riprendendo i teorici della democrazia consiliare.
Non è peraltro difficile scorgere il problema teorico e pratico che pone lo schema: non vi è garanzia alcuna che i «comitati di cittadini» non decidano, per esempio, di sopprimere (istituzionalmente) le tradizioni considerate scandalose, pericolose o altro. La democrazia radicale di Feyerabend potrebbe funzionare solo in un ambiente in cui fosse pienamente accettato il principio del pluralismo necessario delle tradizioni: si pensi a cosa succederebbe in un paese europeo che decidesse di adottare il suo schema (chi potrebbe, in Italia, assicurare la difesa dei Testimoni di Geova, degli omosessuali o magari dei satanisti?) Cosa aveva dunque in mente Feyerabend? Se applichiamo alla teoria la sua stessa lezione - storicizzare le esperienze intellettuali in relazione al contesto culturale - la risposta non è difficile. Il nostro è vissuto a lungo in un clima socio-politico altamente tollerante e permissivo: le matrici della filosofia di Feyerabend non sono né austriache né tedesche, né inglesi né americane, ma propriamente californiane, anzi, devono molto a un peculiare stile di vita, quello della Baia di San Francisco.
«Feyerabend si capisce al meglio nel contesto della controcultura fiorita soprattutto in California», ha scritto Jerome Ravetz, «le sue critiche hanno senso quando sono collegate a quelle di Ivan Illich e gli altri profeti della nuova era» (R 372). Leggere Feyerabend in questo modo è un'esperienza rivelatoria: non si tratta di cogliere analogie più o meno significative, ma di scoprire che l'intero suo pensiero, le sue analisi, le sue idee, i suoi progetti, ruotano intorno al nucleo centrale della controcultura, sia per quel che riguarda le linee portanti, sia per quel che riguarda la strumentazione dei riferimenti dei suoi libri, sia per quel che riguarda l'impianto linguistico e discorsivo delle sue opere.
Sino a che punto sia stato coinvolto negli esperimenti pratici della controcultura - vale a dire, fuor di metafora, se aveva fumato cannabis o preso LSD, se era andato ai concerti psichedelici, se era stato coinvolto nelle esperienze comunitarie o in quelle del libero amore - non è dato saperlo (speriamo nella sua Autobiografia di prossima pubblicazione). Non so dei programmi dei suoi corsi; potremmo anche scoprire che l'autore dell'articolo «The New Science» (astrologia, agopuntura e medicina omeopatica), apparso nel quinto numero del San Francisco Oracle all'inizio del 1967, era uno dei suoi studenti.
La critica della Ragione progressiva si trova quindi al centro della riflessione di Feyerabend. I suoi libri sono costruiti sul tentativo di evidenziarne l'infondatezza delle pretese epistemologiche, mentre l'analisi della funzione repressiva del razionalismo deve qualcosa alla scuola di Francoforte. Tuttavia, al fondo dei suoi argomenti troviamo una prospettiva umanistica fortemente impregnata di quel misticismo olistico - fondato sulla ricerca di nuovi paradigmi epistemologici, gnoseologici e linguistici non-occidentali - di cui si fecero interpreti gli psichedelici e gli adepti delle culture orientali, Timothy Leary e Carlos Castaneda, alla ricerca di un'unità con il cosmo che implicava la ricomposizione psichica dell'uomo e la sua maturazione spirituale: «Abbiamo bisogno di argomenti, ma anche di un atteggiamento, una religione, una filosofia o qualcosa, chiamatela come vi pare, che permetta lo sviluppo di scienze e istituzioni sociali corrispondenti le quali considerino gli uomini come parti inseparabili della natura e della società, e non come loro architetti indipendenti. [Abbiamo] l'epica omerica, il taoismo, ci sono le numerose culture «primitive» che ci fanno provare vergogna con il loro allegro rispetto per le meraviglie del creato. [...] Gli scienziati stessi hanno cominciato a criticare la concezione separatista degli esseri umani, la concezione cioè secondo cui esiste un mondo «oggettivo» e un «dominio soggettivo» ed è necessario tenerli separati» (AR 142).
Il famoso motto feyerabendiano, anything goes, non è forse uno dei principi del Tao, all'epoca la più diffusa religione alternativa d'America? Molte delle idee di Feyerabend che ho tentato di esporre in questo articolo sembrano derivare dalla controcultura. La sua iniziale comprensione per la situazione «colonizzata» del corpo studentesco e le sue critiche successive agli studenti politicizzati della New Left, ai «puritani di sinistra» e agli altri «sinistrorsi provenienti dal campo politico non dialettico» (CM1137) riflettono l'analogo percorso degli hippy. La sua concezione della «democrazia dei comitati» deriva da teorie all'epoca molto in voga - a Feyerabend, come agli altri esponenti della controcultura, piacevano molto le soluzioni di Daniel Cohn-Bendit - e forse dalle esperienze pratiche nei campus, a Berkeley, a San Francisco. Persino la sua simpatia per l'anarchismo era ampiamente condivisa: non penso solo alle bandiere nere del maggio parigino, ma agli apprezzamenti intellettuali, per esempio quelli di un Theodore Roszak, che, giudicando tutte le «vecchie ideologie» immerse «nell'ambiente di pietra e acciaio dell'indiscutibile necessità tecnologica», ne esclude «la tradizione anarchica fondata su figure come Kropotkin, Tolstoj, Thoreau».
Si potrebbe fare analogo discorso per altre idee di Feyerabend (la critica agli «esperti», la polemica contro l'astrattezza, la concezione del linguaggio, ecc.), ma altrettanto importanti, per stabilirne la continuità intellettuale con la controcultura, sono le sue scelte degli esempi, delle strategie discorsive, degli autori e degli argomenti presi in considerazione. Nelle note di CM1 - dove già compaiono, fianco a fianco, Kleist e Brecht, Masters & Johnson e Milan Kundera - oltre a Marcuse, si discutono Ronald Laing, Daniel Cohn-Bendit, Carlos Castaneda e Theodore Roszak. Ma l'esempio più eclatante delle inclinazioni di Feyerabend è l'uso ripetuto e costante, e sempre piuttosto defilato, degli argomenti riguardanti le potenzialità mistico-liberatorie delle droghe psichedeliche. Ciò è stato notato - ma anch'essi non vi si sono soffermarti molto - da alcuni suoi critici. Ogni tanto lo stesso Feyerabend sembra palesare la sua affezione per questi «materiali». Facciamo due esempi. Difendendo la sua esposizione dei temi del Don Juan di Castaneda, risponde nel seguente modo a un avversario che accusa don Juan di totale ignoranza: «Ma questo è il punto in questione: sappiamo davvero qualche cosa sulle droghe quando conosciamo la loro composizione chimica?» (SFS 195). E, ribattendo a coloro che adducono lo sbarco lunare come grande conquista umana, replica: «Ma niente affatto! [...] Facciamo un confronto con le esperienze dei mistici! Completamente soli, senza alcun aiuto, ordinano alla loro anima di lasciare il corpo e la guidano al di là del mondo materiale, a percepire Dio in tutto il suo splendore. Questa è un'esperienza [...]» (SSLI 417).
Senza alcun aiuto da altri uomini, intende l'autore, poiché è noto che i mistici, per simili «viaggi», usano sostanze psichedeliche.

Paradossi e spiazzamenti
Feyerabend è stato spesso considerato un autore paradossale, a volte apertamente contraddittorio, certamente stravagante. Buona parte delle citazioni inserite in questo articolo ne sono già una prova sufficiente. I suoi libri sono spesso organizzati in modo volutamente atipico e irregolare; non di rado divaga nella biografia personale; a volte i suoi argomenti prendono direzioni assolutamente inusitate. Nel 1968, per esempio, in un discorso tenuto a un simposio di filosofia della scienza, si lanciò nella seguente dimostrazione «filosofica» - che, peraltro, la dice lunga sul suo umore del periodo sull'insufficienza della posizione razionalista: «Considerate una coppia sposata. Il marito torna a casa stanco e immusonito ogni sera. E ogni sera si sente infelice seduto a fianco di una moglie insensibile. Egli vede nella costante freddezza e insensibilità della moglie un'evidenza dell'appropriatezza del suo stesso atteggiamento. E ogni notte si confronta con la stessa evidenza. [I razionalisti] gli direbbero di continuare così e non prendere in considerazione altre idee (a meno che un cambiamento nell'atteggiamento della moglie introduca nuovi dati). Ma cosa succederebbe se il marito adottasse un'alternativa e tornasse a casa sorridendo? Chi può dire cosa potrebbe accadere?» (SFGL 133).
A volte Feyerabend si spinge sino alla vera e propria presa in giro, come quando, in una delle sue innumerevoli risposte ai critici, racconta di esser venuto in possesso di un «manoscritto piuttosto confuso» di Joachim-Casimir Schmoller, rinvenuto presso «il lascito letterario di mia zia materna Josefine Mützenbacher» (la celebre cortigiana austriaca di inizio secolo) (SA 57).
Tuttavia le trasgressioni di Feyerabend - che si autodefinisce un «bastian contrario» per partito preso (AR 312) - sono più significative di quanto si potrebbe pensare. La sua polemica con i metodi razionalisti abbraccia anche la sfera del linguaggio e del discorso; accettare il principio dell'esposizione tradizionalista di temi e argomenti in modo ordinato e «razionale» significherebbe convertirsi, ancor prima di iniziare a discutere, alle tesi dell'avversario. Da qui, per esempio, la scelta del «dialogo» come forma di espressione dialettica e non autoritaria. Anche in questo caso Feyerabend condivide la critica radicale al linguaggio codificato (e sclerotizzato) elaborata dalla controcultura (già evidente in CM1). Si tratta, in fin dei conti, dell'accettazione del principio situazionista del détournement, o «spiazzamento»: «un metodo di propaganda all'interno delle vecchie sfere culturali, che dimostra l'usura e la perdita d'importanza di queste sfere», un concetto che nell'ambito della controcultura ha spesso assunto i lineamenti della trasgressione programmata, sia sul piano delle pratiche sociali sia su quello della trasmissione intellettuale.
Anche in questo Feyerabend è stato, e rimane, un maestro:
«B: [...] Non ho una filosofia, se per filosofia si intende un corredo di principi uniti nelle loro applicazioni, oppure un immutabile atteggiamento di fondo. In un altro senso anch'io ho una filosofia, una visione del mondo, ma non so esporla in modo lineare, si mostra da sola, quando mi imbatto in qualcosa con cui entra in conflitto; è soggetta a mutamenti ed è più una disposizione che una teoria, a meno che per «teoria» si intenda una storia il cui contenuto non è mai identico.
A: Ora capisco perché i filosofi non vogliono avere nulla a che fare con te.
B: E giustamente, perché non sono uno di loro». (DM 141).

LEGGERE FEYERABEND

Non è affatto facile muoversi nella bibliografia di Feyerabend che era uso modificare i suoi libri ad ogni nuova edizione (di qualunque lingua si trattasse). Stesso discorso anche per i suoi saggi brevi. Colgo l'occasione per ringraziare l'amico Antonio Moro, che non solo ha diviso con me la sua conoscenza dei testi di Feyerabend, ma mi ha fornito non pochi spunti nella stesura dell'articolo.
I libri di Feyerabend tradotti in Italia sono:
I problemi dell'empirismo, Lampugnani Nigri, Milano 1971;
Contro il metodo (prima versione), Lampugnani Nigri, Milano 1973 [CM1];
Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (seconda versione), Feltrinelli, Milano 1979 [CM2];
La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano 1981 [SSL];
Il realismo scientifico e l'autorità della scienza, Il Saggiatore, Milano 1983;
Scienza come arte, Laterza, Roma-Bari 1984 [SA];
Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1989 [DM];
Addio alla ragione, Armando, Roma 1990 [AR];
Dialoghi sulla conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1992.
Per quel che riguarda gli aspetti particolari del suo pensiero:
1. Epistemologia: I problemi dell'empirismo, Il realismo scientifico, CM1, CM2. Ho anche usato un suo utilissimo saggio-riassunto: "Historical background: some observations on the decay of the philosophy of science", in P.K. Feyerabend, Philosophical Papers, Vol. II: Problems of empiricism, Cambridge University Press, Cambridge 1981, pp. 1-33 [HB].
Segnalo anche, per il suo radicalismo, "La teoria della scienza: una forma di pazzia ancora inesplorata?", in Il realismo scientifico, pp. 345-386. Sull'argomento rimando comunque al recente libro di Roberta Corvi, I fraintendimenti della ragione. Saggio su P.K. Feyerabend, Vita e Pensiero, Milano 1992.
2. L'anarchismo: CM1 e CM2 soprattutto. Si vedano inoltre, a ulteriore chiarimento, "Science. The myth and its role in society. Afterword: theses on anarchism", Inquiry, XVIII, pp. 167-181, e la sua risposta alle critiche di due marxisti australiani, "Favole marxiste dall'Australia", in J. Curthoys, P. Feyerabend, W. Suchting, Metodo scientifico tra anarchismo e marxismo, Armando, Roma 1982, pp. 190-222.
3. La politica: CM2, SSL e AR in particolare. Utile anche la lettura del veloce schizzo "Come difendere la società contro la scienza", in Rivoluzioni scientifiche, a cura di I. Hacking, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 209-228 e di "La scienza in una società libera" (abbozzo delle teorie poi elaborate in SSL e probabilmente il primo articolo in cui Feyerabend usa la locuzione "società libera", abbandonando quella popperiana di "società aperta"), in Il realismo scientifico, cit., pp. 345-386 [SSLI].
4. La controcultura: Soprattutto CM1, ma le prove del coinvolgimento di Feyerabend nei temi e gli argomenti della controcultura sono sparsi in tutti i suoi testi pubblicati dopo il 1968. Richiamo l'attenzione su una sua emblematica (sin dal titolo) conferenza dello stesso anno: "Science, freedom and the good life", Philosophical Forum, I, 1968, pp. 127-135 [SFGL]. Tra gli articoli su Feyerabend che insistono sui suoi rapporti con la controcultura (e alludono alla sua simpatia per la psichedelia) segnalo: E. Gellner, "Beyond truth and falsehood", British Journal for the philosophy of science, XXVI, 1975, pp. 331-342; J.R. Ravetz, "Ideological commitments in the philosophy of science" [R] e J. Agassi, "As you like it", entrambi in Beyond reason. Essays in the philosophy of Paul Feyerabend, a cura di G. Munévar, Kluwer, Dordrecht 1991, rispettivamente pp. 355-377 e 379-387. Una precoce e (pesante) allusione al ruolo che Feyerabend assegna agli "entusiasti dell'LSD" si trova in N. Rudich, "An answer", in Boston studies in the philosophy of science, Reidell, Dordrecht 1967, pp. 425-432.
5. Arte e scienza: non ho affrontato l'argomento nell'articolo, ma Feyerabend ha molto insistito - naturalmente anche per pura polemica - sulle analogie tra arte e scienza, sia dal punto di vista della produzione della conoscenza, sia dal punto di vista della natura epistemologica dei procedimenti impiegati nei due campi: si veda soprattutto SA e l'antologia sull'argomento curata dallo stesso Feyerabend, Arte e scienza, Armando, Roma 1989.
6. La biografia. Ho usato una parte di SSL intitolata "Origine delle idee di questo saggio" (pp. 165-185) e la traduzione in dattiloscritto di Elisa Belotti di "Eindrücke 1945-1954" [I], pubblicato nel 1984 in Unter dem pflaster liegt der strand, XIII, pp. 81-87.
Ho anche citato un brano dell'edizione inglese di Science in a free society, New Left Books, London 1974 [SFS], non presente nell'edizione italiana di Feltrinelli (che è basata sull'edizione tedesca di SSL del 1980).
La citazione da Theodore Roszak è tratta dal suo The making of a counterculture, Doubleday, New York 1969, p. 101 (esiste una traduzione italiana del testo: La formazione di una controcultura, Feltrinelli, Milano 1971). La definizione del détournement è tratta da I situazionisti, Manifestolibri SET, Roma 1991, p. 70.